domenica 14 aprile 2013

Un teatro all'ALBA


    
Nella foto sotto, l'arrivo di due dei fondatori di ALBA: Paul Ginsborg e Marco Revelli.



I video di TUTTI gli interventi della giornata li trovate in questa pagina del sito nazionale di ALBA.
Pubblichiamo qui di seguito il testo di una parte degli interventi che sono stati letti durante le tre sessioni.


PRIMA SESSIONE



Giuliana Beltrame

Perché siamo qui: sconquasso italiano ed europeo

In questa prima sessione ascolteremo i contributi che Sergio Labate, Carlo Freccero, Chiara Sasso, Marco Revelli, Paul Ginsborg e Anna Picciolini offriranno alla discussione per raccogliere quella Occasione da cogliere che ci proponiamo sia la spinta che da questo incontro porteremo con noi.
Inizio da una frase di Ferdinando Pessoa “Tutto vale la pena se l’anima non è piccola” e la unisco alla convinzione che dobbiamo dotarci dello “sguardo lungo” di cui furono capaci gli uomini e le (troppo poche) donne che scrissero la nostra Costituzione. Ben sapendo che le norme costituzionali per diventare diritti realmente applicati richiedono , ora più che mai, la capacità di agire il conflitto.
Siamo in un momento di incubazione del futuro e lo sconquasso che si è prodotto in Italia ha aperto una crepa che ha evidenziato, senza che più nessuno possa far finta di non vederlo, il baratro tra tatticismi e vita tra diritti e loro rappresentanza istituzionale. Siamo consapevoli che non è un problema solo italiano, ma che coinvolge tutte le democrazie con segnali e fenomeni più o meno vistosi. Lo stato miserando “dell’ordine vecchio” e la capacità distruttiva del finanzcapitalismo esigono una azione di opposizione/resistenza capace di parlare a e agire con le donne e gli uomini che in Italia,  in Europa e nel sud del mediterraneo stanno, ancora in forma troppo frammentata, mettendo le basi del cambiamento.
I temi li abbiamo ben presenti: una riconversione dell’economia che abbia come orizzonte la giustizia ambientale e sociale, in un contesto mondiale in cui lo spazio minimo da considerare è almeno a livello europeo; la democrazia e le trasformazioni che sta assumendo. Semplicemente non possiamo accettare che  delle persone si uccidano per la disperazione di essere senza lavoro o reddito. Vedere che questi drammi ci riguardano direttamente (da vicino) ci fa ricordare che queste tragedie sono all’ordine del giorno tra i contadini indiani privati delle terre o i giovani cinesi schiacciati dal rullo della competitività e che la miseria, la morte sono la faccia di un sistema economico che fino a poco tempo fa  si presentava a noi carico di ammiccanti lustrini.

DI COSA ABBIAMO BISOGNO
Abbiamo  pensato a questo incontro dopo la “tempesta perfetta” di cui parla Marco Revelli non per raccattare i cocci, ma per esaminare insieme e con attenzione gli attrezzi che abbiamo nella cassetta, per  inventare e costruire i nuovi che ci mancano.
Abbiamo bisogno di capire con attenta curiosità cosa è successo, non dando per scontate letture consolatorie, di riconnettere la memoria con la parola capace di interrogarsi sul potere. Per questo ci interroghiamo sui linguaggi, sul loro uso performante, e anche sul progressivo deterioramento della democrazia e contemporaneamente sul desiderio di più democrazia.
Siamo consapevoli che ci troviamo ad affrontare una molteplicità di conflitti: da quello tra capitale e lavoro, a quello ambientale, a quello di genere, alle guerre e che non esiste un unico soggetto, un nuovo proletariato, ma esistono tanti soggetti diversi portatori di esperienze, storie, condizioni, frutto del nuovo volto che il conflitto di classe sta assumendo in una società volutamente sempre più frammentata.
Come sono diverse le concrete  sperimentazioni di costruzione di un mondo nuovo , nelle pratiche e nelle relazioni.
Abbiamo l’ambizioso desiderio di essere uno spazio politico in cui possano incontrarsi e intrecciasi quei percorsi di azione concreta che sono così numerosi nel nostro Paese, e nel mondo, uno spazio capace di connettere l’azione locale in un tessuto più ampio, costruendo insieme una visione generale nella  prefigurazione di quello  che chiamiamo “un altro mondo possibile”.

LE PAROLE PER DIRLO ( Marie Cardinal)
Non si può smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone” è una frase della femminista e poeta afroamericana Audre Lorde.
Parliamo spesso di nuovi linguaggi. E’ vero, dobbiamo prima di tutto ridare/ritrovare significato alle parole, e se le parole danno significato alle cose, che se non sono nominate non esistono, dobbiamo trovare il modo di allargare questa riappropriazione.  Riuscendo a ritrovare parole che arrivino alla testa e al cuore, ma soprattutto attivando percorsi di formazione/autoformazione capaci di rimettere nelle mani delle persone strumenti di comprensione e modifica della realtà.
Voglio concludere con le parole di J. Saramago, parole cariche di quella speranza di cui tutte e tutti noi siamo portatori: “Ma è destino degli uomini, a quel che sembra, opporsi alle forze dispersive che essi stessi mettono in movimento o che insorgono dentro di loro. La città si svuota dove prima era il suo nucleo, nel seme che dovrebbe essere la sua continuità. E allora ci si accorge che le terre sono dentro la città e che tutte le scoperte e le invenzioni sono ancora possibili. E che la fraternità rinasce. E che gli uomini, figli dei bambini che furono, ricominciano l’apprendistato dei nomi delle persone e dei luoghi e di nuovo si siedono attorno a un fuoco, parlando del futuro e di quel che a tutti importa. (Saramago : Di questo mondo e degli altri , le terre)



Sergio Labate
Cos’è successo, perché è un’occasione
Sintetizzare cosa sia successo e perché si possano intravedere orizzonti di speranza, a partire dalle recenti elezioni, è insieme semplice e arduo. È semplice, perché intuitivamente siamo tutti d’accordo sul fatto che ciò che è successo è uno scioglimento (grazie al M5S, soprattutto) di un quadro ormai congelato e che dunque ciò che può succedere è un cambiamento radicale che ci allontani dalla frustrazione degli ultimi decenni. Ma è insieme arduo, perché approfondendo questi dati elementari ci si accorge che le elezioni hanno semplicemente disvelato un processo, non l’hanno concluso: e dunque siamo ancora dentro questo processo col rischio che esso vada in direzioni inconsulte, che esso prenda una via regressiva ma anche, evidentemente, che esso sia orientato verso un rinnovamento positivo delle forme della politica contemporanea. Provo comunque a tenere fede al compito assegnatomi, scegliendo di privilegiare l’approfondimento di tre tesi (politica, sociale, economica) che conseguono dalle elezioni. Esse non sono certo le uniche conseguenze che valga la pena sottolineare, ma mi pareva utile, in questa occasione, soffermarmi su di esse.
La prima tesi è politica: le elezioni hanno dimostrato l’emergere della democrazia contro lo stato e una strana insofferenza per la delega coniugata alla consapevolezza dell’urgenza della rappresentanza. 
Nella concezione anti-politica ciò che colpisce non è tanto l’identificazione dello Stato col sistema dei partiti (del resto il primo ad autorizzare questa identificazione è il capo dello stato), quanto il fatto che esso sia considerato il responsabile principale del degrado italiano. L’anti-politica non si nutre semplicemente dell’insoddisfazione per l’impotenza dello stato nei confronti della crisi ma del sentimento diffuso che la politica sia una delle corresponsabili di essa. In altri termini, le politiche pubbliche non rappresentano semplicemente una risposta sbagliata ai problemi, ma rappresentano uno dei problemi o addirittura il problema principale. D’altra parte le lotte di maggior successo dei movimenti non sono, negli ultimi anni, lotte per difendersi dallo stato? Sia sufficiente pensare al referendum sull’acqua pubblica o alla lotta contro la Tav. La loro origine è una politica che non soltanto decide delle nostre vite, dei nostri territori, dei nostri diritti ma li attacca sfrontatamente, senza volere né chiedere ragione[1]. Ciò che emerge non è una semplice sfiducia nelle istituzioni dello stato, ma una vera e propria difesa da esse. Questa tendenza si è resa esplicita e prevalente con il precipitare della crisi (per un motivo molto semplice e prevalentemente “regressivo”, che tra un po’ chiarirò). Questa identificazione ha avuto alcune conseguenze assai interessanti. La prima è che nei confronti del sistema dei partiti si è sviluppato un vero e proprio “odio di classe”. E riflettere su questo è assai utile. Nell’odio di classe il sistema politico viene identificato con una classe. Certo, a un primo livello è sufficiente il riferimento celebre a Gramsci, secondo cui il sistema dei partiti si perverte quando si organizza in classi dominanti che si dimenticano di essere anche classi dirigenti. Ma c’è un secondo livello ancor più interessante. Perché definisco qui lo Stato come una classe? Perché a mio avviso la domanda che sta al centro dell’insoddisfazione nei confronti dei partiti è precisamente questa: lo Stato chi rappresenta? La risposta che sembra prevalere è questa: lo stato rappresenta ormai soltanto i propri interessi. Che detto in termini più chiari vuol dire: il sistema dei partiti è divenuto tale da non rappresentare più classi sociali, ma da rappresentare se stesso contro i gruppi sociali[2]. Quando si parla di “casta” si parla precisamente di una “classe politica” non solo nel senso attivo ma anche nel senso passivo: di una classe politica che rappresenta esclusivamente i propri interessi di classe. Non sto affatto sostenendo che questa identificazione del sistema dei partiti come classe sia corretta[3], sto semplicemente affermando che essa è un presupposto determinante per comprendere il risultato elettorale. Esso manifesta non un’incredulità nei confronti delle classi dominanti, quanto un antagonismo. Il M5S ha avuto il merito di aver fatto sintesi di questo comune denominatore trasversale e, in questo modo, di aver palesato una crisi di organizzazione politica e non solo di credibilità personale.
Ma faccio tre osservazioni, a questo proposito. Innanzitutto che la tesi dell’odio di classe contro i partiti è pienamente funzionale all’ordine dominante. Non perché essa non sia giustificata (i partiti sono stati classi che si sono autoriprodotte e autogarantite) ma perché essa, pur non essendo secondaria, è però seconda. Il nodo centrale è la cessione della sovranità dalle classi politiche alle élites dominanti del finanzcapitalismo globale, non l’uso autoreferenziale della sovranità da parte delle classi politiche. Esse possono continuare a garantire se stesse perché innanzitutto garantiscono le élites finanziarie dominanti (il notaio di questo patto è Napolitano). Certo senza un rinnovamento radicale delle organizzazioni politiche non si darà alcuna azione capace di rivendicare la sovranità perduta, ma questo rinnovamento radicale non è la condizione sufficiente. Esso è dunque necessario ma non sufficiente e il rischio forte è che sia strumentalizzato per occultare i soggetti reali del potere, la sovranità eterodiretta, la natura sistemica della crisi che investe la politica ma non è soltanto politica.
In termini più chiari: l’odio di classe permette di individuare l’assenza della sovranità nel simulacro della liturgia politica. Ma non permette affatto di risolvere l’attuale impotenza. Essa può essere risolta solo confliggendo politicamente coi luoghi dove la sovranità si è spostata, a cominciare dall’Europa. Il rischio è così che l’odio di classe finisca per diventare una sublimazione dell’impotenza e un ostacolo all’individuazione corretta di quel che Lacan definiva il Reale.
In secondo luogo che attraverso il successo dell’M5S si è ormai consolidata la convinzione che aveva dato luogo alla nascita di a.l.b.a.: l’idea cioè che alla crisi dei partiti consegua non tanto la fine della rappresentanza quanto la sua urgenza. Tutti questi anni hanno dimostrato, in negativo purtroppo, che i movimenti non possono disinteressarsi della rappresentanza e che ogni lotta deve universalizzarsiin una norma, in una legge, in un diritto (proprio perché le lotte sono state fatte contro le norme, le leggi, i diritti). Se la rappresentanza ci offende è perché essa può anche garantirci. Così mi pare che vi sia in questo momento una sostanziale consonanza nell’individuazione di questo spazio intermedio che in qualche modo bisogna occupare, senza ipostatizzarlo nella forma partito (novecentesco e ipermoderno) e senza sdegnarlo del tutto. Non si tratta di cambiare partito, ma di riconoscere che la metamorfosi sociale impone ormai una metamorfosi politica della rappresentanza.
In terzo luogo l’M5S ci permette di individuare con nettezza dove sta la crisi dei partiti. Il suo referente polemico non è affatto la rappresentanza (che anzi è il proprio referente costitutivo), ma è la delega. La questione è dunque oggi di trasformare le forme della rappresentanza in modo tale che esse non si esercitino nella forma consueta della delega. Questa evidenza sarebbe ampiamente confermata se solo si provasse ad analizzare la struttura del M5S seguendo le profetiche considerazioni di Weil nella sua Nota sulla soppressione dei partiti politici. Tutto ciò che la Weil contesta dei partiti politici lo ritroveremmo anche nel M5S (specie nelle ultime settimane): il leaderismo, la cessione della libertà di opinione e di pensiero, il principio di maggioranza e di minoranza, il populismo[4]. Ma allora perché, nonostante tutto, nella percezione diffusa il M5S non è un partito ma è contro i partiti? La risposta è semplice: perché la sostanza dei partiti degli ultimi decenni non è stato soltanto la liquefazione delle ideologie, la destrutturazione dei loro organismi. È stato l’essersi dati come unica missione quella di autoriprodurre la propria classe dirigente (dominante), disinteressandosi del tutto di avere militanti. Il M5S è invece un movimento che in questi anni si è occupato di formare militanti (pochi e a macchia di leopardo) e si è rifiutato di costruire classe dirigente. Cioè si è occupato (laddove è riuscito ad esserci) di stare sui territori per recepire le istanze dei territori e non di selezionare nomi la cui appartenenza politica fosse l’unico merito per cui delegare in bianco (è evidente che questa considerazione presuppone una distinzione fondamentale tra gli attivisti del M5S e gli elettori di esso).
Dunque il M5S, piuttosto che chiudere il percorso di ripensamento della rappresentanza politica, lo apre: delineando questa divaricazione ormai nitida tra rappresentanza e delega (ma con quali pratiche? Le difficoltà di Grillo in questo momento non manifestano un deficit di immaginazione politica su cui dobbiamo fare la nostra parte?), ma anche imponendoci un ripensamento vero (che è innanzitutto un’autocritica) nei confronti del leaderismo, dei rapporti di forza, dei linguaggi e delle sue pratiche, della neutralizzazione della differenza di genere, della concezione assembleare e partecipativa, ecc.

La seconda tesi è sociale: le elezioni hanno mostrato l’emergere di una coscienza di “classi disfunzionali” e la necessità di rivolgere il conflitto verso il soggetto reale.
Il dato sociale immediato che emerge dalle elezioni è la bruciante e trasversale condanna delle politiche neoliberiste e di austerity. Potremmo fermarci qui, se non fosse che quell’elemento di trasversalità impone un approfondimento. C’è un paradosso con cui dobbiamo fare i conti: la crisi è così radicale che essa decreta la fine del riformismo senza però che si possa individuare un gruppo sociale (o un insieme di gruppi sociali affini) che sia il soggetto di questa rivoluzione. Che vi sia stato uno spaventoso ritardo nell’analisi della metamorfosi della società è noto, ma non credo che questo ritardo sia stato colmato tout court dal M5S. Ciò non toglie che anche qui alcune riflessioni del tutto iniziali si possano fare.
La mia sensazione è che l’antiriformismo (cioè l’insoddisfazione nei confronti di un intero sistema di organizzazione sociale) che ha premiato il M5S (e qui mi riferisco agli elettori, non agli attivisti) sia prevalentemente regressivo. Qui posso rispondere alla questione che ho lasciato in sospeso prima. La crisi non ha creato le storture della politica (né l’inciviltà degli italiani). Perché solo adesso ci indigniamo? A mio avviso valgono qui le celebri considerazioni di Moore su Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta, che sintetizzo con le parole di Honneth: “I sentimenti e le disposizioni morali che sorreggevano le azioni politiche di questi gruppi di lavoratori [che hanno dato luogo ad alcune rivolte S.L] non avevano origine da prefigurazioni di una società migliore, bensì dalla volontà di mantenere in vita un contratto sociale che si era originariamente esperito come giusto. […] solo l’inaspettato presentimento, scaturito dalla rottura delle routine quotidiane, che il contratto sociale che si annuncia all’orizzonte porti con sé condizioni di vita peggiori di quelle a cui la memoria storica ancora rimanda, può essere alla base del sorgere di percezioni di ingiustizia e di indignazione morale»[5].
È evidente che la società italiana è attraversata da questo legittimo sentimento regressivo, che è all’origine, per esempio, dell’impotenza di un certo sindacalismo. Allo stesso modo mi appare chiaro che il largo consenso ottenuto dal M5S si possa ricollegare, esclusivamente per ciò che concerne i suoi grandi numeri elettorali, all’angoscia che deriva dalla prefigurazione di un orizzonte sociale che reca con sé un peggioramento irreversibile delle condizioni di vita.
Se è ragionevole questa considerazione, ne conseguono due interessanti osservazioni.
La prima è che c’è in atto una situazione analoga a quella descritta da Marx a proposito della rivoluzione francese del 1848: come è possibile unire due differenti fazioni sociali che possano in questo modo difendere «il comune interesse di classe senza rinunciare alla loro reciproca rivalità»? La risposta di Marx – ripresa ora anche da Zizek – è che interessi differenti possono essere uniti solo «dalla negazione della loro premessa condivisa»[6]. Buona parte degli elettori del M5S appartengono non solo alla “borghesia non-funzionale” ma anche ai “lavoratori non-funzionali”[7]. C’è in atto un processo di divaricazione sociale che impoverisce larghi strati di popolazione e che permette questa strana alleanza e che contiene in sé lavoratori precari, lavoratori autonomi, piccoli imprenditori, ecc. Essi, semplicemente, non servono più… ma non servono più a chi? La risposta a questa domanda è decisiva. Essi non servono più al capitale, ed è solo per questo che non servono alla politica. La politica non ha direttamente bisogno dell’emarginazione dei lavoratori: essa fa piuttosto il lavoro sporco che permette al finanzcapitalismo di liberarsi di strati di popolazione non essenziali per la riproduzione del capitale. In questo sono d’accordo con la tesi espressa da Marco Revelli. Il voto al M5S rende visibile una classe paradossale (unita più dalla sua espulsione che dalla sua costituzione) di una generazione ultraspecializzata e ultraprecaria – la creative class – che ha reagito all’ottusa definizione montiana di “generazione perduta”. Aggiungo solo che quella definizione – non so se volontariamente o involontariamente – è servita ad unire gruppi sociali contro un soggetto fittizio (la politica) e ad addomesticare l’indignazione nei confronti dei responsabili reali. Resta il fatto che l’emergere di “classi non-funzionali” permette di ipotizzare un cambiamento reale ed imminente. Un motivo essenziale per costruire un soggetto politico nuovo che vada oltre il già dato è proprio questo: trovare le forme comunicative per rivolgersi ai gruppi sociali disfunzionali e indirizzarli verso la giusta battaglia comune, configgendo col soggetto reale responsabile di una crisi che non ci emargina semplicemente dalla politica, ma ci emargina dai livelli pubblici di sussistenza (l’urgenza di proposte sul reddito e di ripensamento complessivo e non decostruttivo dell’Europa).
La seconda è anch’essa prospettica. L’analisi di Moore può servire a giustificare l’ampio consenso elettorale di M5S, ma non serve certo a spiegare verso dove va una parte cospicua (certo, non così cospicua) degli italiani che si riconoscono nelle lotte, nei movimenti, ecc. Il paradigma dei beni comuni (assunto nel suo senso più esteso) va in quest’altra direzione: di immaginare modelli sociali e politici che non siano affatto conservativi, ma siano progressivi. Anche questo mi pare un elemento di differenza irriducibile che giustifica la necessità di un percorso innovativo: una sinistra nuova sarà quella che non si occupa più tanto di conservare, quanto davvero di emancipare, a partire dal rimescolamento sociale che stiamo vivendo (e che, per quanto possa sembrarci eretico, è semplicemente un dato materiale con cui dobbiamo fare i conti).

La terza tesi è economico-culturale: l’anticapitalismo finanziario non è sufficiente.
Accanto alla paradossale estensione della rabbia anti-austerity c’è una convergenza diffusa verso una critica alla finanziarizzazione dell’economia. Grottescamente, Tremonti aveva anticipato i tempi: il risultato delle elezioni è che siamo tutti anti-capitalisti? Ovviamente no, ma questo mi permette di avanzare un’ultima tesi che emerge come conseguenza di questo processo elettorale. Anche la critica al finanzcapitalismo può avere un volto regressivo e un volto progressivo.
Il suo volto regressivo si può sintetizzare così: il finanzcapitalismo sarebbe un’espressione innaturale del capitalismo. E dunque per risolvere la crisi si deve tornare al capitalismo buono (all’economia sociale di mercato, per esempio). Confesso che questo mi appare il punto più debole della proposta del M5S (non di credere a questo volto regressivo, ma di non decidersi lasciando l’ambiguità e privilegiando la critica alla politica).
Il volto progressivo si sintetizza evidentemente nella tesi contraria: il finanzcapitalismo è l’espressione naturale e necessaria del capitalismo. E ciò vuol dire che esso manifesta in forma conclusiva l’insostenibilità di questo sistema di organizzazione sociale e, per questo, richiede una radicale conversione dei modelli produttivi, ecologici, urbanistici, sociali, antropologici, etici. Lavorare per estendere la persuasione a questo volto progressivo dell’anti-capitalismo e per demistificare il suo volto regressivo mi pare dirimente.
Su questo mi pare che vi sia una distanza reale e una maturità forte da parte dei movimenti e dei territori. Probabilmente perché questa parte divenga diffusa vi è bisogno di superare la diffidenza nei confronti della politica, proponendo lo schema di una rappresentanza nuova che trovi un modo per “neutralizzare” i meccanismi di delega, di leaderismo, di eccezionalità elettorali.
Non sappiamo ancora se da queste elezioni sia emersa, come reazione alla crisi, un’idea di futuro. Può darsi che dinanzi al dramma di questo presente, possa sedurci persino una qualche idea di passato. Su questo si gioca la responsabilità politica che possiamo interpretare in questo processo. Possiamo dire che molti ormai si sono resi conto del precipitare verso l’indigenza e sono consapevoli dell’urgenza dei bisogni. Ma riconoscere i bisogni non vuol dire ancora trasformare la società. Come trasformare il bisogno in forza, è questo il compito adesso.


[1] Una biopolitica portata all’estremo e incapace (o semplicemente disinteressata) persino di costruire regimi di verità o dispositivi ideologici che possano giustificarla. Una biopolitica disinteressata alla costruzione del consenso e anche per questo intimamente anticostituzionale.
[2] Dentro l’esperienza di CSP questa tendenza è stata presentissima. Uno degli argomenti tipici di difesa dei tesserati di partito contro il tentativo di porre delle regole nella selezione delle candidature che privilegiassero la società civile era: “noi siamo stati presenti ad ogni manifestazione o rivendicazione territoriale. Noi siamo come la società civile”. Ma questa argomentazione è una condanna a morte: essa manifesta un’autocomprensione dei militanti dei partiti come gruppo sociale che deve rappresentare se stesso. Un partito che diventa parte della società civile si nega in quanto partito (non è, rovesciando l’argomentazione, la stessa critica che quegli stessi compagni rivolgono ora al M5S?).
[3] A rigor di termine, forse essa vale soltanto per il Partito Democratico. Non certamente per il PdL che deve buona parte del suo consenso ad un patto di rappresentanza fatto con gruppi sociali ben determinati e agguerriti nella difesa dei propri interessi.
[4] Tutto sintetizzato perfettamente da queste parole di Simone Weil: «Il numero è una forza nelle mani di colui che ne dispone, non nelle mani di coloro che lo costituiscono» (S. Weil, L’Iliade o il poema della forza, tr. it., Asterios, Trieste 2012).
[5] A. Honneth, Riconoscimento e conflitto di classe, tr. it. Mimesis, Milano 2011, pp. 118-119. Il riferimento è B. Moore, Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta, tr. it. Edizioni di Comunità, Milano 1974.
[6] S. Zizek,  Un anno sognato pericolosamente, Ponte delle Grazie, Milano 2013.
[7] Mi rifaccio in quest’analisi a Zizek contro Negri: «Negri e Hardt sottovalutano fino a che punto il capitalismo contemporaneo abbia privatizzato con successo (almeno a breve termine) il “sapere comune” stesso, e fino a che punto i lavoratori, ancor più che la borghesia, stiano diventando “superflui” (dato che in numero sempre più elevato sono non solo temporaneamente disoccupati ma strutturalmente inoccupabili). Inoltre, anche se è vero in linea di principio che la borghesia sta diventando non funzionale, dovremmo qualificare questo enunciato con la domanda: non funzionale per chi? Per il capitalismo stesso» (Ibid., p. 13).



Chiara Sasso


Un saluto e un augurio di buon lavoro a tutti. Confesso che se Massimo Torelli non avesse insistito non avrei scritto nulla, non per cattiva volontà ma perché sento qualunque parola, qualunque analisi assolutamente non appropriata al periodo che stiamo vivendo.
Inoltre, il carico simbolico che il movimento notav ha ormai assunto nell’immaginario collettivo è un po’ pesante non ci piace passare come i primi della classe, anche perché non esiste un modello esportabile tout-court ogni azione è frutto del radicamento territoriale, costruito in anni di impegno e se da noi funziona non è detto che da altre parti funzioni allo stesso modo.
Porto dunque alcune riflessioni senza alcuna pretesa.  Non posso essere presente a Firenze perché in questi giorni in valle di Susa si sta svolgendo la 17 edizione del Valsusa Filmfest. Non pensate a questa manifestazione come uno dei tanti eventi culturali. E’ da considerare (insieme ad altre iniziative che per fortuna esistono in valle) come un vero antidoto all’abbrutimento, o al rischio di diventare monumento di se stessi  a causa di un processo che si protrae da troppo tempo.
Un territorio che da ventiquattro anni si oppone con tutte le energie a una grande opera, passando e coinvolgendo intere generazioni, consapevoli di interpretare Davide contro il Golia delle grandi lobby: una valle che mette in campo ogni possibile energia, ogni ora della giornata, ogni idea, ogni parola scritta, ogni contatto, tutto al servizio della “causa” può rischiare di implodere su sé stessa, diventare mostro/veder snaturare tutto. Un’opposizione senza sé e senza ma, com’è vissuta da troppo tempo la nostra lotta poteva trasformare il territorio in qualche cosa di arido, con famiglie divise, con l’odio a far da padrone.
Per fortuna, fin da subito, sono stati attivati tutti quei canali che ci hanno permesso di entrare in contatto con il “mondo”. Si sono moltiplicate le iniziative culturali che ci hanno aiutato ad allargare i confini. Abbiamo abbracciato, condiviso, seguito, ogni iniziativa. Il super treno veloce più che mai è molto sullo sfondo…Santo Subito per averci dato grandi possibilità di incontro- per aver alzato la qualità della nostra vita.
Per questo le iniziative che organizziamo vengono supportate in ogni modo e anche in un certo senso “protette”. Una vittoria noi l’abbiamo già avuta ed è quella di non aver trasformato la valle in un posto invivibile.
Sì, questa è anche una valle che ha votato –com’è stato riportato dai giornali- in modo massiccio 5 stelle. Così come nel 2006 Rifondazione e perfino i Verdi avevano avuto un buonissimo risultato, fingendo di credere a quel Pecoraro Scanio che era salito alla Sacra di San Michele (monumento simbolo che sovrasta la valle) per accendere un cero all’arcangelo Michele. Abbiamo creduto a tutti e a nessuno, ondeggiando con il voto senza mai prendere troppo sul serio la cosa.
Certo, vedere il 23 marzo un centinaio di parlamentari 5 stelle e Sel in visita al cantiere di Chiomonte, è stato importante. Tuttavia, nei presidi disseminati lungo la valle, luoghi attivi di incontro, la politica che si discute e soprattutto si applica è altra cosa. Faccio un esempio, le Comunità Montane sono organi che stanno per essere aboliti. Per noi è stato l’Ente che ha permesso fin dagli anni Novanta di lavorare insieme con le famose tre gambe: cittadini, amministratori, tecnici.
Quando nel 2007 ci sono state le elezioni per l’accorpamento di 3 Comunità Montane, il movimento notav -che nel frattempo era stato eletto e diventato parte attiva nelle amministrazioni comunali- si è impegnato per opporsi all’inciucio voluto da una parte del Pd torinese che spingeva per l’accordo Pd Pdl finalizzato a neutralizzare gli amministratori notav e Sandro Plano iscritto al Pd ma fortemente eretico. Certo non si aspettavano che il movimento appoggiasse una giunta anomala, con l’elezione di Sandro Plano presidente sostenuto dagli amministratori notav. Ricordo questo passaggio perché è stato importante, poteva essere un matrimonio che durava poco e invece… E’ stata una scelta di grande consapevolezza e continua ad esserlo perché questo Ente ormai alla frutta senza fondi e in fase di scioglimento continuiamo a tenerlo in vita noi. In tutte le iniziative viene invitato il Presidente della Comunità Montana e il 23 marzo per la manifestazione sono stati stampati i manifesti con il logo istituzionale ma pagati dai vari comitati.
Questa è la politica che ci piace fare, anche entrando a gamba tesa nelle questioni. Fra i tanti slogan di questi anni forse uno riassume meglio tutto: “Partiti insieme torniamo insieme”, questo rappresenta la necessità praticata in questi anni, trovare sempre un equilibrio, una mediazione, qualcuno doveva frenare..qualche altro accelerare un po’. E’ ovvio che le discussioni non sono mancate, ma il clima che si respira in valle non è avvelenato.
In questi giorni anche da noi si sta discutendo sul problema lavoro e salute l’acciaieria Beltrame, la difesa del lavoro. Gli operai della Beltrame hanno inviato una lettera al movimento chiedendo di fare un’assemblea per parlarne -si farà- nella risposta è stato scritto “Si parte e si torna insieme” non lasciamo nessuno indietro, da solo, a sostenere un problema così gravoso.
Chiudo. Dicono che sia possibile vivere la politica in questo modo perché è forte la comunità, ma la comunità non è una cosa astratta si costruisce anno dopo anno, investendo nei luoghi in cui si vive.
In questi anni i partiti sono sempre stati tenuti lontani –amici con tutti- sposati con nessuno/forse questo è uno dei successi. Abbiamo provato ad inventare altre forme.
Venendo all’assemblea che si terrà oggi, dall’esterno molti chiedono/si aspettano una risposta che sappia rappresentare tutti quei temi che da anni portiamo avanti. Dall’altra è un po’ come se ci mancasse la famosa -cassetta degli attrezzi- per rimettere in moto un processo senza ricadere in errori che conosciamo.
L’esperienza di Cambiare si può per me è chiusa, e non voglio commentare oltre. Ci vorrebbe una idea forte dalla quale ripartire. Forse una prima partenza potrebbe essere quella di lasciare (per una volta) da parte le famose “analisi politiche”, arrotolarci meno sulle nostre parole e provare a guardare in modo concreto alle cose che si potrebbero fare e proporre.


Anna Picciolini

Tante donne in Parlamento:
un segno di differenza possibile?

Quando ho dato questo titolo al mio intervento, pensavo che prima di oggi avrei dovuto leggere molte cose  su giornali, e soprattutto su siti e blog, per vedere se al punto interrogativo del titolo poteva seguire una riposta, possibilmente affermativa. Non è stato così, non c’è stato bisogno di leggere tante cose, la domanda rimane aperta: a un mese circa dall’insediamento delle Camere, dal Parlamento con la più alta percentuale di donne nella nostra storia non sono arrivati segnali che questa presenza abbia un significato, che ci sia una differenza in gioco (come si chiamava il sito aperto da alcune deputate e senatrici nel periodo 2006-2008).
Eppure in questo periodo di donne nei luoghi della politica si è parlato molto, soprattutto da parte di uomini. Si è parlato dell’assenza di una donna fra i dieci saggi nominati da Napolitano. Chi come me è convinta che quel gruppo sia stato scelto per far passare il tempo, si chiede perché mai una donne autorevole e competente potesse aver voglia di farne parte. Non spreco la mia indignazione per questo! Si è poi parlato, in questi ultimi giorni, della scarsissima presenza di donne fra i grandi elettori che integreranno le Camere riunite in seduta congiunta per eleggere il presidente della Repubblica. Ma mi spiegate come ci si poteva aspettare una presenza più equilibrata se la prassi prevede che le regioni mandino a Roma le persone che occupano alcuni ruoli istituzionali. Il presidente del Consiglio regionale, il presidente della Giunta (di solito entrambi espressione della maggioranza), più, per la minoranza, il vice-presidente del Consiglio o il capo gruppo dell’opposizione. Se fra queste cariche, pochissime sono occupate da donne, come si può pensare che per eleggerle si scombini una prassi consolidata, a volte più rigida di una norma?
Adesso si chiede, da varie parti, che alla massima carica dello Stato, la presidenza della Repubblica, sia eletta una donna. Anche questa battaglia mi appassiona poco, perché se penso alle donne il cui nome vene proposto, sento l’esigenza di applicare a loro almeno gli stessi criteri di scelta che userei per le candidature maschili. Ho detto “almeno”, perché so di correre il rischio, come tanti compagni e tante compagne, di chiedere a una donna più di quello che chiederei a un uomo, una coerenza in più, una bravura in più. E quindi anche in questa polemica non ho molta voglia di entrare.
Mi interessa invece tornare al punto di partenza, al risultato delle elezioni che ha visto il numero di donne in Parlamento aumentare del 50%, in valori percentuali: passare dal 20% circa al 30% circa significa aumentare, percentualmente, della metà.
Forse però conviene fare un ulteriore passo indietro. Cercare di capire come questo risultato è stato possibile è necessario per capire se è lecito aspettarsi che questo numero possa essere una massa critica, capace di fare del dato quantitativo la premessa di un salto di qualità. Poco prima delle elezioni, scrivevo il resoconto di un incontro di donne, di femministe, svolto a Bologna, intitolandolo: Il numero non basta, ma serve. Subito dopo a un intervento in cui analizzavo il risultato ho dato il titolo: Il numero serve, ma non basta.
Partiamo da una constatazione elementare: i gruppi parlamentari con una maggior presenza di donne sono quelli della coalizione di centrosinistra (Pd molto più di Sel) e quelli del Movimento 5Stelle. I meccanismi attraverso i quali ciò è accaduto sono diversi.
Nel Movimento5Stelle, con tutte le critiche che si possono fare alla scarsa ampiezza del corpo elettorale interno, ai criteri di scelta delle possibili candidature (prima di tutto la fedeltà al movimento), si deve ammettere che si è trattato di un “concorso” in cui donne e uomini partivano in condizioni di parità. Non servivano i soldi (e gli uomini di solito ne hanno a disposizione di più), non serviva una notorietà fuori dal movimento (e a quella interna donne e uomini potevano aspirare nello stesso modo). Insomma, come gli esperti hanno sempre sostenuto, i soggetti svantaggiati, e in questa gara le donne lo sono, vengono favoriti dalla semplicità delle regole e soprattutto dalla limitatezza dell’area in cui si compete.
Diversa la situazione nel Pd e in Sel, dove il meccanismo della doppia preferenza era un’esplicita “azione positiva”, che metteva, o provava a mettere, donne e uomini nelle stesse condizioni ai blocchi di partenza. Mi chiedo però perché allora non si è ottenuto quel mitico 50 e 50% che ormai da qualche anno una parte non piccola del movimento delle donne chiede.
Rubo mezzo minuto per precisare che per me, e non solo per me, la richiesta non è legata al fatto che ci debba essere una rappresentanza “di genere” (per cui gli uomini rappresentano gli uomini e le donne rappresentano le donne). Si tratta più semplicemente di garantire il diritto delle donne di essere “rappresentanti”!
Torno alla domanda: perché con la doppia preferenza la percentuale d donne è rimasta intorno o sotto il 50%? Forse la risposta non è difficile: in parte perché le candidature che non sono passate attraverso le primarie non erano basate sullo stesso criterio, in parte – e questo mi interessa di più – perché le schede con una sola preferenza, molto probabilmente, portavano un nome maschile più che un nome femminile.
Credo quindi che le resistenze all’entrata delle donne nei luoghi decisionali della politica, e in tutti i luoghi decisionali, vadano cercate più accuratamente. Le resistenze sono dentro i gruppi politici, le resistenze sono anche dentro di noi, anche qui.
Breve inciso: non ho considerato Rivoluzione civile, dove  la scarsa presenza di donne era maggiore nelle liste per la Camera, mentre ce n’erano di più per il Senato, dove era improbabile che venissero elette…
Quando parlo di noi parlo di A.L.B.A., dove nello statuto si ripete come un mantra il criterio della “parità di genere”, ma dove non interessa quasi a nessuno che il linguaggio rimanga segnato dal maschile inclusivo (che, ovviamente include il femminile) – ma lo sapete che anche l’Accademia della Crusca fa convegni dove la presidente dice che “ciò che non viene nominato”, o meglio “chi non viene nominato, non esiste”?  Mentre fra di noi compagni bravi possono scrivere un elenco di soggetti politici che hanno contribuito a mettere in crisi il paradigma politico-conoscitivo del ‘900, e ignorare il movimento delle donne. E anche chi lo definisce il soggetto dell’unica rivoluzione riuscita del ‘900, cosa su cui a volte mi permetto di avere qualche dubbio, è poi capace di scrivere  e parlare come se il mondo fosse abitato da esseri umani asessuati, senza cogliere le profonde asimmetrie fra uomini e donne, nel rapporto per esempio con il lavoro, che non a caso continuano a indicare con un sostantivo al singolare, mentre la realtà ci parla di lavori, di produzione e riproduzione, ecc. ecc.
Ma quello che sicuramente non esiste nella testa di molti, e forse anche di molte, è l’esistenza, ancora oggi e nonostante tutto, di un movimento di donne come soggetto politico, plurale, tutt’altro che unito, se non eccezionalmente, ma comunque soggetto politico, in grado di prendere parola sul mondo, a partire da sé. Siete capaci di vedere quello che emerge ogni tanto con il favore dei media, vedi Se Non Ora Quando, ma non siete capaci di vedere quello che si esprime nell’associazionismo, diffuso, nei movimenti. Quante volte i movimenti, quelli veri, esprimono nella prima fase una leadership femminile? E quante volte questa leadership emersa spontaneamente viene sostituita da una dirigenza fatta di uomini, quando si tratta di formare delegazioni o di eleggere dei rappresentanti?



Marcello Toninelli

Dunque... “Cosa è successo”.

È successo che, come molti avevano previsto, il generoso tentativo di “Cambiare Si Può” è andato a sbattere. Inutile discuterne ancora. Gli errori sono stati individuati. La frustrazione metabolizzata. Ora bisogna guardare avanti, e ripartire da dove ci eravamo fermati, imparando dai nostri sbagli.
Per cominciare, dobbiamo tener conto di quella che il sociologo Richard Sennett chiama “corrosione del carattere”, cioè i cambiamenti che questo nuovo capitalismo “flessibile”, consumista e globalizzato ha operato in profondità in ognuno di noi. Uomini e donne non sono più quelli di solo cinquant'anni fa. Il “Manifesto” di Alba lo dice abbastanza chiaramente. Ma ricordarsene ogni giorno, nella pratica quotidiana, soprattutto quella politica, non è facile. Eppure è il primo lavoro che dobbiamo fare. Con costanza. Senza stancarci. Perché se non riusciamo a tenerlo sempre presente, rischiamo di commettere ancora e ancora solo errori.
Conosco persone che si dichiarano convintamente di sinistra, che professano un antiberlusconismo integrale... e però guardano ogni sera, godendone, “Striscia la notizia”. Che è quanto di più berlusconista si possa immaginare. E anche di grillista. Non a caso, l'ideatore di “Striscia” Antonio Ricci e Beppe Grillo sono amici di vecchissima data. E ancor meno a caso, come ha fatto notare Giuliano Santoro nel libro “Un Grillo qualunque”, Ricci e Grillo sono due facce della stessa medaglia: se li si analizza in termini foucaultiani, il discorso di “Striscia” e quello di Grillo mostrano analogie notevoli.
Entrambi se la prendono con dei colpevoli minori.
Ricci: I ladruncoli, gli imbonitori, i truffatori degli anziani...
Grillo: la Casta, ovvero una classe politica già ampiamente delegittimata e spogliata dei propri poteri dal mercato e dagli organismi economici e finanziari transnazionali...
La loro caccia alle streghe permette ai veri responsabili di continuare indisturbati il loro lavoro.
Nel caso di Ricci, Berlusconi.
In quello di Grillo, le multinazionali e gli organismi finanziari globali.
Dunque accettiamolo: ognuno di noi è ormai “corroso nel carattere”. E, come dice Luciano Gallino nel suo saggio “Finanzcapitalismo”, “attendersi che individui così plasmati nel profondo della personalità si adoperino per plasmare la civiltà-mondo in crisi non è solamente senza speranza. Appare piuttosto totalmente privo di senso, poiché essi sono la civiltà-mondo”.
Impresa ardua, dunque, la nostra. Una mission impossible, si direbbe. Questo non ci esime dal provarci. Ma ci chiede di essere doppiamente presenti a noi stessi. E di fare uno sforzo di fantasia immane, se vogliamo davvero inventare non solo un soggetto politico nuovo, ma un Sogno nuovo. Liberandoci definitivamente dei cascami di una Sinistra novecentesca che ha fallito e non ha più alcun appeal, se non per pochi “giapponesi” che continuano a combattere una guerra ormai terminata nella giungla delle loro enclave identitarie ridotte a percentuali da prefisso telefonico. E trovando il modo di recuperare gli ideali più profondi della Sinistra, declinandoli però nella realtà di oggi affinché possano avere nuova efficacia nel mondo che ci circonda, di fronte alla catastrofe ambientalista che ci attende, alla mutazione psicologica che abbiamo subìto e alla finanziarizzazione globalizzata e senza freni dell'economia. Un lavoro di analisi ed elaborazione tutt'altro che semplice, ma ineludibile.
E quando ci saremo riusciti, ci troveremo davanti all'altro ostacolo che ha tarpato le ali ad Alba, in questo suo primo anno di vita: la pessima capacità di comunicare.
Gli estensori del “Manifesto”, professori e reduci, sono stati bravi a trasmettere il loro sogno a diverse migliaia di sostenitori che erano però in gran parte reduci e professori anch'essi. E il “resto del mondo”? In che modo pensiamo di “raccontare” il nostro Sogno a uomini e donne devastati dal consumismo, dalla crisi e dall'inevitabile cinismo suscitato dallo scadimento morale della politica partitica?
Io ho solo un suggerimento da dare, per ora: che la mitezza assunta a tratto caratterizzante di Alba, lo diventi anche del suo messaggio. Andiamo oltre la stagione dei “vaffa”, e presentiamo invece un orizzonte di obiettivi positivi. Diciamo che Alba AMA l'aria pulita; AMA il lavoro che dà dignità a uomini e donne; AMA la scuola che insegna ai nostri figli a diventare adulti responsabili; AMA tutto quello che può rendere questo mondo finalmente vivibile e a misura d'essere umano.





SECONDA SESSIONE

Guido Viale

Se non riusciamo a mettere al centro del nostro discorso, del nostro intervento, delle nostre iniziative, anche quando riguardano i livelli istituzionali o la difesa dei diritti, l’ampiezza, la profondità e la gravità della crisi che stiamo attraversando (in Italia, in Europa e nel mondo) rischiamo di essere assimilati alla “casta”, al mondo della politica così come viene percepita dalla stragrande maggioranza della popolazione e, in particolare, di coloro di cui cerchiamo di promuovere coinvolgimento e mobilitazione.

Occupazione, redditi da lavoro, diretti o differiti, welfare, ma anche buona parte dell’apparato produttivo e delle strutture amministrative del paese hanno raggiunto un punto di non ritorno: nessuna “ripresa” – che peraltro riescono a vedere solo coloro che da cinque anni ci ripetono che è alle porte, che ormai si intravvede “la fine del tunnel” – riuscirà più a far tornare come prima. L’esempio più calzante è quello della disoccupazione giovanile, in Italia al 40, per cento, in Grecia e Spagna al 50, ma eccezionalmente elevata ovunque, senza contare la diffusione del precariato. E’ un segno evidente che il sistema, nell’assetto che ha assunto e consolidato nell’ultimo trentennio in Occidente, non è più in grado di offrire una prospettiva alle nuove generazioni. Questi giovani tra qualche anno saranno degli adulti – e in parte già lo sono – e non per questo troveranno di meglio; e già ora si sa che li attende una vecchiaia senza lavoro, senza pensione, senza reddito. E’ un intero sistema produttivo che “si svuota” ed emargina una quota crescente della cittadinanza.Parlare ai giovani, ai lavoratori e alle lavoratrici precarie e no, ai disoccupati e alle inoccupate, vuol dire mettere al centro del nostro lavoro questo disastro. Il nostro compito non è “aggregare” strutture, organizzazioni, movimenti comitati e quant’altro intorno a un programma comune; ma fare in modo che siano loro ad aggregarsi: il che comporta per tutti un complesso lavoro di elaborazione: non solo teorico e “strategico”, ma soprattutto pratico, che mette in gioco anche molte abitudini e soprattutto autorappresentazioni personali. Di queste è necessario che impariamo a parlare; e prima ancora a capirle e interpretarle.(Il fallimento di cambiaresipuò, per quello che riguarda le nostre responsabilità – quelle altrui sono fin troppo chiare – dipende dal fatto che non abbiamo avuto il tempo, ma soprattutto non abbiamo saputo adeguare il nostro linguaggio a questa esigenza. Noi dobbiamo proporre; e poi adoperarci perché gli obiettivi che proponiamo vengano capiti, condivisi, criticati, trasformati; mantenendo ferma la barra di quella che è la nostra ispirazione di fondo: la democrazia interna, quella partecipata, quella rappresentativa, quella diretta, integrate tra loro).

Per tutti gli obiettivi che ci possiamo proporre il punto di riferimento su cui concentrate la nostra attenzione, e la nostra iniziativa è il governo locale dei territori. Per diversi motivi:Innanzitutto soltanto i comuni – sui territori, i consorzi dei comuni – possono assumersi la responsabilità, sia politica che economica e soprattutto giuridica, di rilevare la gestione delle aziende in crisi, di quelle che chiudono, di quelle dove il management abbandona (magari portando all’estero macchinari, know-how, brevetti, controllo dei mercati). Sono tutti molto riluttanti a farlo (alcuni no ci pensano proprio) ma un primo obiettivo è quello di imporglielo;Il governo locale del territorio, e in particolare la gestione dei servizi pubblici, è il perno fondamentale della riconversione ecologica, cioè dell’avvio di un diverso meccanismo economico che faccia dei servizi pubblici il punto di raccordo tra nuovi modelli di consumo ecocompatibili, fondati sulla condivisione e la partecipazione, e la riconversione delle aziende senza mercato a produzione dei beni e servizi necessari a questa transizione.

I Governi locali, cioè i Comuni, sono il bersaglio fondamentale delle politiche di austerità. Per tre ragioni:L’oggetto principale delle politiche di austerità, oltre all’erosione del potere contrattuale e del reddito delle classi lavoratrici ed escluse, è la privatizzazione dei beni comuni e, in particolare, dei servizi pubblici locali: proprio il perno di una possibile riconversione ecologica che il capitale finanziario non avvierà mai;
L’effetto principale, in parte voluto e in parte solo consequenziale, delle politiche di austerità è lo svuotamento totale del ruolo del governo locale. Un comune è tale se fornisce ai cittadini i servizi di cui la vita associata ha bisogno: energia, gestione dei rifiuti (cioè delle risorse), mobilità, servizio idrico, approvvigionamento della ristorazione collettiva – ma potenzialmente anche di quella individuale – asili, scuola, assistenza agli anziani, integrazione del reddito. Un Comune che non è più in grado di fare queste cose non serve a niente; Il Comune, in quanto livello dell’amministrazione pubblica più a diretto contatto con la cittadinanza, diventa così il bersaglio della rivolta – e del rancore – di chi viene escluso dai servizi, e dalle politiche di promozione dell’occupazione, di cui dovrebbe farsi promotore. Riscuote persino delle tasse inique per conto del Governo, come lo sceriffo di Nottingham, enza riceverne adeguati ristorni. Così fa da scudo tra il governo e la BCE, troppo lontani, e la rabbia popolare. La rivolta dei commercianti di Napoli contro la ZTL (l’intervento della camorra va da sé) va visto alla luce di un Comune che blocca il trasporto pubblico perché non riesce a pagare la benzina. Una ZTL è la sostituzione del servizio pubblico alla mobilità individuale. Se il primo viene meno, non ha senso.C’è qualcosa che non funziona in questa analisi: la maggioranza dei sindaci e delle amministrazioni dei Comuni sono membri a pieno titolo del sistema politico partitico e della casta. Anche i nuovi sindaci del 2012 – staremo a vedere quelli del 2013 – sono rimasti prigionieri del meccanismo che li espropria dei loro poteri e, attraverso di loro, espropria lavoratori e cittadinanza dei loro diritti e della loro dignità.Eppure è solo a livello comunale che si possono sperimentare nuove forme di governo partecipato, sia dei servizi pubblici locali che del bilancio municipale e che si può organizzare una lotta vincente contro i vincoli finanziari – patto di stabilità, fiscal compact, pareggio di bilancio, two packs – da cui discende il patto di stabilità interna che espropria sindaci e cittadini. Sono i sindaci, vecchi e nuovi, che devono mettersi alla testa di questa mobilitazione; oppure venir costretti dalla mobilitazione popolare ad assumere la rappresentanza, assumendone le rivendicazioni. Ma la posta in gioco è la revisione radicale delle regole finanziarie che governano i bilanci dell’UE, oppure il ripudio selettivo di un debito che per un numero sempre maggiore di Stati membri è assolutamente insostenibile: sia ora che nei prossimi decenni.





Roberto Musacchio

ALBA PER L'ALTRA EUROPALe prossime elezioni europee, già fissate per il 22-25 maggio 2014, saranno con tutta probabilità le prime in cui la dimensione della politica europea sarà effettivamente centrale (e prima, a settembre, ci saranno quelle tedesche, destinate a pesare non poco).
E questo non solo per le liste che vi parteciperanno ma anche e soprattutto per i/le cittadini/e che ormai sono avvertiti del peso che questa dimensione ha assunto.
Un poco come accadde dopo Cernobyl quando nella battaglia su nucleare sì o no vi fu una straordinaria acculturazione di massa rispetto a temi, anche scientifici, fin li astrusi e/o sequestrati (anche volutamente), lo stesso probabilmente accadrà su questioni apparse fin qui lontane e inarrivabili come Fiscal Compact, euro plus, six e two pack, troika ecc.
Questa dimensione di autoformazione di massa è un tratto peculiare della nuova dimensione della cittadinanza attiva, e critica. Quello che spesso non fanno più i partiti, informare e formare, lo hanno fatto cittadini e comitati sui temi che investivano la loro vita, in particolare sulle questioni ambientali.
Contribuire a questa scoperta di massa della dimensione europea può essere un ruolo che ALBA si attribuisce, consono alla propria natura di soggetto della democrazia che si auto organizza.
Per altro la questione europea ha una sua specificità nella dimensione italiana. L’Italia è stata un Paese “europeista” in quanto lo spirito comune ha visto prevalere una visione favorevole all’edificazione della UE. Lo si è visto con il referendum di mandato a procedere verso l’Unione, partecipato e positivo, con la affluenza abbondante alle elezioni europee, con la “benevolenza” rivolta alle istituzioni e alle scelte europee.
Ma questo spirito comune in realtà ha coperto una integrazione passiva e subalterna della politica e dei cittadini dentro la nuova edificazione. Le correnti consapevolmente europeiste, e dunque attive e critiche, sono rimaste elitarie, fin dall’800. Gli stessi grandi partiti, DC e Pci, hanno considerato l’Europa una sorta di campo neutro buono per ridefinire le proprie collocazioni nazionali.
In particolare l’edificazione della UE è stata largamente appannaggio delle elite, questa volta particolarmente connotate per la loro internità al nuovo pensiero liberal-tecnocratico. A loro è stata data un’ampia delega che si è via via trasformata in una sorta di sospensione, o commissariamento, della democrazia, tanto più evidente quanto la nuova edificazione procedeva non per estensione e riqualificazione del vecchio compromesso sociale che era alla base del modello sociale europeo, ma per smantellamento e sostituzione.
Paradossalmente la edificazione europea è stata segnata pesantemente da elementi ideologici, quasi tutti regressivi. L’ideologia liberista, della virtù della finanziarizzazione e del pareggio di bilancio, delle privatizzazioni, della governance e delle cosiddette buone pratiche, sostanzialmente adattative. Colpisce la rottura non solo con i cardini dell’edificazione democratica precedente ma anche con gli elementi solidaristici propri delle precedenti costruzioni europee, sin dalla CECA.
Questa Europa ideologica ha costruito le ragioni della propria crisi nella negazione della propria identità storica e sociale. Ma come tutti i sistemi fondatisi sull’autotrinceramento, cioè strutturalmente fragili e che si arroccano, affida la propria continuità alla negazione delle alternative.
Da questo punto di vista è veramente significativo, ancor più che la presunta assenza di una Europa politica, che invece c’è nella dimensione suddetta, l’assenza di una Europa democratica non solo dal punto di vista istituzionale ma dal punto di vista dell’esistenza dei corpi intermedi, dei soggetti organizzati, delle stesse forme dell’opinione, che sono i veri elementi fondativi di una democrazia contemporanea.
In Italia tutto ciò è riscontrabile facilmente rileggendo la storia recente nel passaggio che va da Ciampi a Monti, attraverso lo stesso Prodi. Passaggio che ha coinciso con quello dalla prima alla seconda repubblica e dai partiti storici alle attuali strutture di mera gestione della governance. Le sinistre italiane ne sono risultate schiantate nei loro fondamenti e le destre si sono mosse tra accettazione e controcanto populistico.
Oggi misuriamo la crisi verticale e drammatica di questo percorso. Crisi della seconda repubblica e crisi europea stanno insieme. Ciò che ha reso il PD “forte”, e cioè il modularsi come soggetto della governance, arrivando in questa campagna elettorale a porre al centro l’accettazione del Fiscal Compact e della centralità tedesca, lo ha visto “debole” e sconfitto per la crisi sociale e nazionale di questa collocazione. Ragionare del PD senza guardare a questa sua dimensione è non ragionare sulla realtà del suo corpo materiale e delle sue culture in cui si fa fatica a ritrovare qualche elemento di pensiero, e soprattutto di pratica, che si distacchi da questa nuova identità liberale al cui servizio per altro il PD porta la sua vecchia matrice fideistica.
La situazione europea è simile, anche se con tratti diversi nei vari Paesi. A differenza dell’Italia, lo smarrimento della politica è stato forse minore in altri grandi Paesi. Ma il tratto del passaggio del socialismo europeo verso una identità liberale, con forti connotati nazionali e corporativi, in Germania ad esempio, è comune. Ci sono in Europa comunque sinistre che hanno provate a ripensarsi in questa dimensione, anche con risultati significativi. L’esempio di Syriza è il più recente e attivo.
Le sinistre e i movimenti che hanno provato a praticare una alternativa al livello di una altra idea dell’Europa non sono però riusciti fin qui nel loro intento. Perché? E’ la domanda a cui dobbiamo provare a dare una risposta. E io penso che il tema centrale sia che non è data alternativa se non c’è la costruzione del soggetto che la renda praticabile e cioè una coalizione di movimenti sociali che occupi lo scenario europeo dandosi quella dimensione come propria.
Per questo ragionamento, sommario, credo che questo anno debba essere fortemente caratterizzato da una battaglia per una nuova Europa democratica. Questa nuova Europa, al contrario di quello che pensano le sinistre della governance, non può nascere in continuità con l’attuale ma solo attraverso significative rotture.
Occorre in primo luogo rompere la gabbia dell’austerità. E questo lo si fa attraverso una disobbedienza attiva, nazionale ed europea, verso i trattati e i patti, di stabilità e il fiscal compact. Mi pare evidente che nessuna reale alternativa in Italia sia possibile se non si disobbedisce a questi diktat, ampiamente e clamorosamente fallaci. Il ritornello dell’abbinare l’austerità con la crescita vale né più né meno come le vecchie convergenze parallele. E’ vecchia politica, che vuole abbindolare. In realtà è la costruzione ideologica e liberale che va rovesciata.
E  va posta al centro una politica di armonizzazione che si fondi sugli obiettivi sociali. L’occupazione. L’economia ambientale. Il diritto al reddito. Un largo bilancio europeo per investimenti. Il riequilibrio delle varie aree europee secondo la priorità di questi obiettivi. Ma che ponga mano alle ragioni vere degli squilibri e cioè i differenziali esportativi e di produttività. E che riformi radicalmente il sistema finanziario secondo le linee contenute anche nel libro di Gallino, finanzcapitalism.
Questa è vera costruzione europea, il resto è pseudo europeismo che ha portato alla crisi attuale.
Questa Europa democratica ha bisogno di una sua dimensione istituzionale. Oggi siamo al paradosso drammatico che sono in campo solo strutture di governance, per altro a pensiero unico. Le governance tecnocratiche ed intergovernative fanno tutte le scelte senza mandato parlamentare e i governi le applicano, e se ne fanno alibi, senza controllo parlamentare. Pensare che il gap si risolva con l’indicazione di un nome per il Presidente della Commissione cui partecipino i Partiti europei indicandolo a loro leader per le prossime elezioni, non affronta e non risolve i problemi. Non è il Presidenzialismo la soluzione alla crisi democratica. Molto più giusta una via connessa all’edificazione di una democrazia parlamentare che preveda la elezione del PE per liste europee e non nazionali e il suo potere legislativo diretto, con un governo eletto dal PE e non nominato dagli Stati. Ma tutto ciò richiede anche una nuova fase costituente, di una vera Costituzione Democratica, che può vedere come soggetto portante il PE, ma dentro un vero processo democratico e di cittadinanza.
Se siamo convinti che questa è la priorità dell’oggi, è evidente che il soggetto politico nuovo cui stiamo lavorando non può che porsi da subito in questa dimensione di un’altra Europa.


Qui sotto, il video dell'intervento di Andrea Baranes.


A seguire, una breve galleria fotografica della seconda sessione, coordinata da Simona Repole (al centro).












TERZA SESSIONE


Chiara Giunti

Relazioni e forme del soggetto in cammino
Un aspetto che colpisce è che negli ultimi dieci-quindici anni la riflessione sulla questione della SOGGETTIVITÀ POLITICA ORGANIZZATA si svolge in massima parte fuori dai partiti, cioè fuori da quelli che dovrebbero essere i primi attori della questione. Ma non lo sono più da tempo. Le riflessioni e la ricerca sono diventate patrimonio quasi esclusivo di sociologi e politologi, e di quei singoli e collettivi dell’iniziativa sociale e politica che si definiscono come “cittadinanza attiva-società civile” sempre più nettamente fuori dai partiti. Emerge così un altro aspetto della profonda mutazione del partito, che -per dirla con Marco Revelli- si è svuotato alla base e verticalizzato, trasferendo in alto i propri centri di direzione, che sono diventati anche sempre più centri di comando e sempre meno di pensiero. Con la propria evaporazione i partiti, e in particolare quelli della sinistra – che anche su tale carattere di auto-comprensione si sono nel Novecento costituiti – hanno progressivamente perduto la capacità di riflettere su se stessi. Così come avviene per le classi e i gruppi sociali che in questa fase del capitalismo si presentano “in sé ma non per sé”, anche i partiti hanno subito questo processo di perdita di coscienza. Il “finale di partito” riveste anche questo volto, accompagnando al vuoto della rappresentanza quello dell’auto-rappresentazione. Si è passati dalla forma novecentesca “pesante” del “partito di massa” – e nel suo modello strutturale e comportamentale rimasto invariato anche nei partiti minori (e minoritari) da esso derivati dopo l’89- fino alla forma “leggera” da agenzia elettorale dell’attuale partito postmoderno, mediatico e personalistico. Ma ciò è avvenuto senza fare i conti con tale trasformazione, “senza elaborare il lutto”, innanzitutto da parte di quelli stessi che lo vivevano.
Questo aspetto non mi pare da sottovalutare, perché in mancanza di una tale riflessione profonda, sono sopravvissuti proprio gli aspetti peggiori -più antidemocratici negli esiti e distruttivi nelle relazioni– di conformismo acritico e di opportunismo politico legati all’affidamento al capo (il maschile non è casuale), al verticismo dei processi decisionali, fino alle degenerazioni di casta contro le quali si è rivoltato con rabbia il voto ultimo e il successo del M5S. Per trovare embrioni di alternativa e iniziare a percorrere sentieri di uscita e di ricostruzione di senso alla questione del soggetto politico si deve quindi guardare altrove: dove? Non ci fornisce risposte su questo il M5S che (concordo con Sergio Labate) non chiude affatto il percorso di ripensamento della rappresentanza politica ma piuttosto lo apre, avendo fatto una piazza sì pulita delle macerie che resta però instabile e piena di crepe. Il M5S in questi anni ha formato attivisti preparati su temi specifici ma si è rifiutato programmaticamente di formare classe dirigente (e adesso con tanti parlamentari le difficoltà emergono ed emergeranno proprio sul piano della mediazione e delle relazioni che è quello dove una classe dirigente politica si sostanzia), con un DNA che unisce in un giacobinismo postmoderno il “noi siamo la società civile e la volontà generale” con l’affidamento al capo e l’orizzontalità tutta virtuale e trascendente della Rete. Una sorta di comunità, o di moltitudine, senza la processualità della costruzione di pratiche partecipative della dimensione collettiva, sostituita con una modulistica procedurale mutuata -non casualmente[1][1] – sui metodi aziendalistici del controllo di qualità (obiettivi, strumenti, finanziamenti, misurazioni). Dove allora rivolgersi?
Come ALBA abbiamo detto e scritto che la volontà di partecipazione, di “far da sé”, di riprendere in mano il bandolo del discorso pubblico, richiede un modello di pratica e di organizzazione politica radicalmente altro rispetto a quello formatosi nel lungo ciclo novecentesco. I partiti politici attuali hanno poi teso a monopolizzare e ad aziendalizzare la rappresentanza, scavando l’abisso fra istituzioni politiche (“stato apparato”) e società civile (“stato comunità”) in cui essi stessi stanno precipitando. Occorre allora immaginare e provare a costruire altri corpi intermedi, espressione di nuovi modelli di partecipazione politica fondati su passione, trasparenza, inclusione. Nuovi soggetti per nuovi spazi pubblici, articolazioni di una democrazia non più solo fondata sulla delega e sulla rappresentanza separata dalla partecipazione collettiva. Con l’attenzione che corpi intermedi non sono solo “i partiti” ma la pluralità di forme abbastanza stabili di struttura collettiva che si pongono come soggetti attivi nello spazio pubblico (comitati associazioni collettivi centri sociali consigli circoli sindacati ecc.).
Il soggetto politico organizzato è invece quell’entità specifica che esiste ed agisce nello spazio intermedio particolare e complesso che si colloca fra la società civile attiva e il piano della rappresentanza politica generale ai vari livelli, e ci sta senza ridursi a riflesso o portavoce duro e puro delle lotte né la salta e la cancella con lo strumento una tantum del voto. Perché non chiamare questo “partito”? Del partito senz’altro esso occuperebbe lo spazio e la funzione, che non è certo riconducibile alla sommatoria di movimenti o alla rete di reti, né alla “confederazione politica dell’iniziativa sociale”. Non volendo cadere in sterili discussioni nominalistiche, semplicemente questo termine ha ormai oggi assunto un significato di rigida separatezza castale che immediatamente allontana ed esclude. Proprio quello di cui non c’è bisogno, per chi si proponga di ricostruire una sinistra all’altezza dell’occasione che la stessa devastazione ci offre. Nell’epoca frenetica del capitalismo globalizzato che trasforma e oggettiva le persone in meccanismi di lavoro “H24” e in consumatori (e che nella crisi poi distrugge lavoro e consumo), un attore politico collettivo ha senso se ricostruisce spazi e tessuti di relazioni, occasioni e metodi che permettano il superamento dell’isolamento, della solitudine e della diffidenza, quella del “Chi l’ha visto”, che è anche lo streaming sempre e ovunque: rappresentazione invece di rappresentanza. Occorrono dimensioni non sospettose né violente della soggettività. Per questo si parla di “soggetto politico nuovo”. La politica si è sempre più degradata a basso esercizio del potere e delle emozioni, perdendo la sua qualità di conoscenza attiva per cambiare. Ricostruirne il senso vitale, trasformativo, in modalità adeguate a riconnettere -più che unificare- la frammentazione, è una sfida alta, perché richiede d’interrogarsi e cercare soluzioni che riescano a combinare la democrazia con l’efficacia, affrontando il nodo del come si funziona, di come ci si relaziona, che tanto ha poi effetto sul come si decide. Le regole formali, magari poche ma chiare, sono necessarie ma non sufficienti, se ad esse non si associa la lenta e costante creazione di una cultura profondamente diversa.
Qui emerge tutto il valore del riconoscimento della dimensione delle passioni e dei comportamenti: non si tratta affatto di buoni sentimenti, né di presupporre un’impossibile astratta armonia da contrapporre al conflitto. Si tratta invece di sperimentare modalità radicalmente nuove di comportamenti e passioni creative che siano capaci di gestire il conflitto, che c’è sempre e comunque – a partire da quello di genere – sia nella società che anche dentro il soggetto politico. In primo luogo portandolo in luce, senza operarne la rimozione, e questa è una prima fondamentale lezione che ci viene dal movimento delle donne e dai femminismi, racchiusa nella frase “il personale è politico” . L’altra la si trova rivolgendosi agli strumenti ed ai metodi della democrazia partecipativa, che si rivelano molto efficaci nel facilitare processi di crescita, di formazione della capacità politica, quindi di cultura e di vita politica. Così da produrre condizioni di un “ben vivere” delle persone nella dimensione politica collettiva, qui ed ora più soddisfacenti non nell’avvenire, in quanto facilitano l’accesso di genere, di generazioni, di condizioni socioeconomiche e culturali diverse Si tratta quindi di proporre e praticare modelli di attività politica non totalizzante in una dimensione “militaresca” e professionalizzante – escludenti in primo luogo donne e giovani – ma al contrario commisurate alle possibilità e volontà di ciascuna/o, variabili secondo le condizioni di vita, sostenibili.
Anche per questo vorrei sostituire ai termini “militanza” e “militante” quelli di “cittadinanza politica” e di “attivista politica-politico”. In un soggetto politico, nuovo proprio perché si propone inclusione diffusione e distribuzione del potere, è indispensabile sperimentare metodi di riconoscimento e di gestione evolutiva delle differenze e delle tensioni. Gli strumenti della democrazia partecipativa possono qui svolgere pienamente la loro funzione, che è quella di combinare informazione discussione e decisione, dato che un soggetto politico può assumere decisioni per se stesso. Infatti se i momenti di partecipazione non hanno un’effettiva capacità decisionale il loro ruolo è presto svuotato di senso e le persone si allontanano. I movimenti di questo decennio, a partire dai social forum, dai movimenti partecipativi dell’America latina e fino all’Onda e ad Occupy, hanno prodotto germi innovativi delle forme della comunicazione e della decisione politica, pur lasciando irrisolte molte domande. Si è passati innanzitutto dalla forma classica, rigida e “rettangolare” – verticalizzante – dell’assemblea a quella circolare, più flessibile e antigerarchica dei forum e ancor più delle riunioni in piccoli gruppi. Le pratiche di democrazia partecipativa, di varia natura e con diversi scopi,offrono le forme del Town meeting, dell’OST, o del metodo PARTY. In ALBA (a Parma il 30 giugno e 1 luglio 2012) l’abbiamo applicato per discutere e decidere i punti fondamentali dello Statuto che stabilisce le regole essenziali del nostro stare insieme: i criteri fondamentali dei processi deliberativi e le caratteristiche della struttura organizzativa. Un primo passo cui altri ne seguiranno: praticare la democrazia partecipativa come elemento integrante della costruzione del soggetto nuovo aiuta a limitare e superare leaderismi e narcisismi, tramite la cura delle relazioni e delle differenze. Un lavoro impegnativo e di lunga lena, ma capace rapidamente di creare comunità aperte. La struttura a rete, composta di nodi territoriali e snodi tematici, e da organismi di coordinamento ed operatività politica in cui gli incarichi sono a rotazione non cumulabili e fondati sulla parità di genere, appare quella che meglio punta ad esercitare il “potere di” piuttosto che il “potere su”. La tensione fra queste due modalità e nature del potere si ripropone sempre nelle soggettività organizzate (e nella sinistra del Novecento ha assunto la veste ampia e complessa della dinamica “consigli-partito/consigli-sindacato”), e sdpesso ripropone il contrasto fra “base” e “vertice”, fra “centro” e “periferie”. Anche in una struttura reticolare in cui il centro non ha una sede fissa né un apparato professionalizzato. Da un lato arriva l’invocazione di una sorta di “iper-democrazia”, in cui tutto deve essere comunicato discusso da tutti (persone e nodi) e solo dopo questo completo processo di integrale consultazione gli organismi esecutivi locali o nazionali possono decidere. Tutto ciò che arriva anche nella semplice forma di proposta da un organismo “nazionale-altro” viene sentita come verticistica e centralistica. Ma convive anche la tendenza opposta, alla continua richiesta agli organismi di coordinamento e direzione “di linea”, di fornire proposte, di elaborare e distribuire contenuti, così affidando la delega più totale a chi si prende la responsabilità di coordinare e dirigere. Non di rado le due tendenze, che sono fra loro speculari e interdipendenti, si fondono in un unico atteggiamento di “protesta lamentosa-rancorosa-insofferente”, espressa nel linguaggio duale del “voi/noi” e nutrita della citazione ripetuta di tutto ciò che non va, senza vedere né indicare ciò che invece funziona o quel che ciascuno potrebbe provare a fare in prima persona per rimediare. Atteggiamenti molto lontani da quella generosità ed empatia che sono efficaci anticorpi alla frammentazione rabbiosa paurosa e depressa in cui siamo immersi. Sperimentare di più il sentimento dell’empatia, cioè la capacità di mettersi nei panni dell’altra/o, in termini non solo personali ma politici, praticando quella “salda comunanza” che esalta le facoltà tipicamente umane di scelta e di socialità vuol dire provare a partire da sé, ma nella dimensione della relazione con gli altri e le altre. Questo è il sentiero su cui stiamo già camminando e che intendiamo allargare e tracciare più profondamente, dove incontrare singoli e collettivi, e alzare via via forse non case in muratura ma tende mobili e accoglienti per chi cerca ancora.


Lorenzo Zamponi

WE ARE 38,7%
Elementi per un percorso di soggettivazione sociale, generazionale, politica

Lo scenario che le elezioni politiche del 24-25 febbraio ci hanno lasciato è quanto di più confuso e surreale si potesse immaginare. Dopo un anno e mezzo di governo Monti, in cui qualsiasi nefandezza è stata giustificata con le necessità della crisi finanziaria, ora che c’è un nuovo parlamento, in linea teorica ben più sensibile del precedente rispetto ai temi sociali ed economici, questi sono completamente spariti dalla scena, coperti dal folklore parlamentare, da assurdi dibattiti sul fatto se le indennità dei presidenti delle camere vadano tagliate del 30 o del 50% e da alchimie politiche sulla formazione del governo che non hanno niente di invidiare alla poco gloriosa epoca del pentapartito.
Anche i pochi elementi positivi di questo primo scorcio di legislatura, come l’elezione a capo dei due rami del parlamento di due persone come Laura Boldrini e Pietro Grasso, rischiano di ridursi ad aperture apprezzabili ma cosmetiche, che lasciano ancora fuori dal parlamento le vertenze reali, i mille drammi e conflitti quotidiani che attraversano questo paese, la realtà di un’emergenza economica che viene tirata fuori a orologeria per giustificare qualsiasi macelleria sociale da parte dei governi e nel frattempo continua lentamente ad erodere le condizioni di vita di milioni di cittadini.
Ciò che succederà nelle prossime ore e nei prossimi giorni aiuterà a chiarire alcuni elementi di questo panorama, dato che non tutti gli scenari, chiaramente sono uguali: se veramente si formasse un “governo di cambiamento” sostenuto da centrosinistra e Movimento 5 Stelle, un’alleanza spuria e stretta nella tensione tra la necessità di guardare alle parti più attive della società per trovare una ragione sociale e l’incapacità strutturale a rappresentarle, si aprirebbero sicuramente prospettive più interessanti per i movimenti, in termini di apertura del dibattito politico e costruzione di una dialettica vera tra battaglie sociali e politica, di riconquista di uno spazio di possibilità per vertenze sociali vittoriose, di messa in contraddizione di entrambi gli schieramenti sul nodo della fedeltà ai diktat europei, rispetto a quello che succederebbe con un nuovo “governissimo”, inevitabilmente costruito sulla continuità con Monti, sull’immobilismo politico e sulla macelleria sociale.
Ma in ogni caso non è sul piano parlamentare che si può togliere il volante dalle mani del “pilota automatico” di cui ha parlato Mario Draghi, quel sistema di regole, pressioni e condizionamenti che impone l’austerity come stella polare a prescindere da chi sia al governo. Il dibattito politico è prigioniero di tre illusioni: quella berlusconiana, secondo cui all’austerity tedesca si può contrapporre l’arcitaliana arte di arrangiarsi, il tentativo di elemosinare un po’ di credito in più e tirare a campare scaricando sull’odiato stato il peso del debito, rubacchiando qua e là, truccando i conti; quella grillina, secondo cui gli interessi sociali e le prospettive politiche contrapposte sono state superate dalla logica al tempo stesso individualista e organicista della rete, in cui ognuno vale uno e tutti lavoreremmo insieme per il bene comune, se non ci fosse una casta di corrotti a impedircelo; quella democratica, secondo cui la “non vittoria” elettorale è solo un incidente di percorso, dovuto alla legge elettorale, a un leader non abbastanza carismatico o al destino cinico e baro, ed è invece ancora possibile mettere in campo una proposta politica che tenga insieme la necessità inderogabile di politiche redistributive con l’obbedienza cieca di diktat di Francoforte, nel nome del “salvare la baracca” dai populismi contrapposti.
Tre grandi illusioni basate su uno stesso meccanismo, cioè l’idea di un’Italia unita e pacificata, di una concordia sociale in cui si è tutti sulla stessa barca, di uno schieramento compatto contro Il Nemico che ognuno identifica come capro espiatorio per non affrontare i nodi della crisi: la Germania e i comunisti per Berlusconi, i politici corrotti per Grillo, il populismo irresponsabile per Bersani. Ognuno si inventa il proprio Saladino contro cui lanciare l’ennesima crociata, unendo dietro agli scudi di una finta contrapposizione tutta politicista pezzi di società profondamente diversi, divisi, frammentati, privi di un qualsiasi progetto di società. Quelle in campo sono identità tutte politiche, nel senso più deteriore del termine, costruite sulla macerie di una società in cui di identità collettive in grado di far guardare oltre l’orizzonte individuale non c’è traccia.
La sconfitta della sinistra, se non si vuole restare prigionieri delle dinamiche dei simboli e delle alleanze, va letta da questo punto di vista, come rottura dei legami di identificazione tra soggetto sociale e soggetto politico. Se dopo 5 anni come quelli tra il 2008 e il 2013, densi di mobilitazioni e vertenze tutt’altro che minoritarie, come la straordinaria vittoria dei referendum di giugno 2011 dimostra, gli unici soggetti politici che si pongono in qualche modo in continuità con quelle esperienze si fermano al 2,3 e al 3,2%, è evidente che quel legame è saltato. E l’indubbia affermazione elettorale del Movimento 5 Stelle denota un fenomeno ben preciso: si è esaurita la spinta propulsiva del PCI, sulla cui eredità ideologica e sulla cui base elettorale tutti i partiti della sinistra continuavano a campare a 20 anni dalla Bolognina. Finora, la volatilità elettorale era stata soprattutto esterna a quel campo: si trattava di allagarlo più o meno al centro, di tenerne insieme i pezzi organizzati, di evitarne un’eccessiva dispersione nell’astensione. Oggi, per la prima volta, un soggetto che non ha niente a che vedere con quella storia, come quello creato da Beppe Grillo, porta a casa milioni di voti in quell’area. Oggi non è più possibile, come ha fatto la sinistra negli ultimi 20 anni, andare avanti per inerzia. Quel capitolo è chiuso, ne va aperto un altro, e non su base ideologica. Credere che basti agitare il no all’austerity e al fiscal compact, come se si trattasse di concetti con una significato univoco e riconosciuto, per costruire un’alternativa, è un’altra illusione. Qualsiasi proposta politica, in questa situazione, non può che partire da un legame profondo con le condizioni materiali delle persone, con le vertenze sociali che ne scaturiscono e con il protagonismo di chi le anima, senza mediazioni rappresentative.
Per questo, se intendiamo sbloccare la situazione e aprire una fase diversa, è necessario darsi da fare per rompere queste illusioni, far saltare questa finta concordia sociale, mostrare le fratture reali che attraversano la nostra società. È necessario, per uscire da questo stallo, un po’ di puro e sano “spirito di scissione”, recuperando il senso gramsciano di quest’espressione, quello di “progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica”, di processo collettivo di riconoscimento della propria parzialità all’interno della società, di constatazione della condivisione di questa condizione con tanti altri, e, di conseguenza, di attivazione per il cambiamento. Una sinistra al 2 o al 3%, in una fase densa di stravolgimenti sociali come quella che stiamo vivendo, è una sinistra senza popolo, una sinistra che non gioca alcun ruolo in quegli stravolgimenti, una sinistra ridotta a corrente d’opinione. E allora forse, più che preoccuparci di ricostruire la sinistra, dovremmo preoccuparci di ricostruire il popolo. Dobbiamo recuperare la consapevolezza che, per riaprire qualsiasi orizzonte di possibilità per il cambiamento, serve attivare una parte di società, costruire al suo interno meccanismi di identificazione e reciproco riconoscimento e mobilitarla. Serve un processo di soggettivazione forte, in grado di suonare la sveglia, di costruire appartenenze collettive lungo fratture ben diverse e più rilevanti di quelle, illusorie, su cui si svolge il dibattito politico.

Se è il tempo della soggettivazione sociale e non della rappresentazione ideologica, allora per noi, per quel sempre più vasto mondo di studenti e lavoratori, indipendenti e subordinati, immigrati ed emigranti, che vive per motivi generazionali una condizione sociale di precarietà, è necessario ripartire da quello striscione che abbiamo mostrato in piazza Montecitorio il giorno dell’insediamento del nuovo parlamento, quando indicavamo nel 38,7% di disoccupazione giovanile l’unica vera maggioranza di questo paese. Dire di essere il 99% sul piano ideologico non sposta di una virgola i rapporti di forza, se non diciamo con forza, sul piano della soggettivazione sociale, “we are 38,7%”, noi siamo un pezzo della società di questo paese, che vive una condizione sempre più drammatica, quella dello sfruttamento travestito da flessiblità, dello smantellamento dei sistemi di welfare, dell’assenza di prospettive di vita diverse dall’emigrazione forzata, e che sa di avere in sé la potenzialità del cambiamento, dell’innovazione, della costruzione di un futuro diverso per tutti e per tutte.
Per non disperdere questa potenzialità, questo pezzo di società si deve riconoscere, identificare e attivare, deve farsi soggetto sociale e generazionale, rifuggire ogni tentazione giovanilista e iniziare a prendersi sul serio. La campagna “Voglio restare” ha convocato per il prossimo 21 aprile un incontro nazionale a Roma. Si tratta di un’ottima occasione per fare un passo in avanti in questo percorso. Partire da tutto quello che è stato fatto in questi mesi, dai comitati nati nei territori, dalle persone aggregate intorno alle proposte che si sono andate via via delineando, e rilanciarlo con una determinazione all’altezza dei tempi che stiamo vivendo. Se nel novembre scorso ci siamo detti che dovevamo “cambiare il paese per non dover cambiare paese”, oggi dobbiamo dirci che per cambiare questo paese dobbiamo identificare chi deve fare cosa, dobbiamo ricoscerci come piattaforma avanzata al servizio del cambiamento generale, come pezzo non autosufficiente che guadagna la propria centralità mettendosi a disposizione di un processo più ampio, di un processo di soggettivazione sociale, generazionale e politica che parta dalla condizione precaria e che sappia indicare una via d’uscita.
Si tratta di un processo di soggettivazione sociale e generazionale proprio in nome dello spirito di scissione di cui sopra, del bisogno di ripartire da temi reali e materiali, di ricomporre sul piano sociale ciò che la politica, o meglio una sua degenerazione opportunista, ha diviso. Ma dev’essere un processo che indichi una prospettiva politica, se non vogliamo rimanere prigionieri della sindrome di Peter Pan, del rivendicazionismo fine a se stessa, dello stereotipo dei bamboccioni che non sanno che chiedere. Se vogliamo essere presi sul serio, dobbiamo iniziare a prenderci sul serio, accompagnando all’azione vertenziale e rivendicativa una presa di responsabilità generale, tutta politica, facendo a tutto il paese una proposta di cambiamento basata sul protagonismo della nostra generazione e sulle idee che sarà in grado di produrre.
Soggettivazione, infatti, non significa corporativismo. Sarebbe controproducente creare, come spesso si è visto fare, intorno ad alcune aree del precariato, come il lavoro cognitivo autonomo, un sentimento di aristocrazia e lontananza dalle dinamiche del conflitto capitale-lavoro, insistendo sulla natura “indipendente” della propria condizione, come se davvero si potesse essere indipendenti e non subordinati in un mercato del lavoro, come se le contraddizioni di questo sistema non riguardassero anche chi non ha un contratto di tipo tradizionale, come se ci si potesse chiamare fuori dai conflitti sociali ed economici che strutturano la nostra società in cambio di un reddito. La battaglia per il riconoscimento della dignità del lavoro indipendente e per la costruzione di un nuovo welfare universale ha senso solo se si accompagna a quella per l’eliminazione della precarietà nei rapporti subordinati e per il loro riconoscimento come tali, senza scorciatoie o stratagemmi.
Superare il rivendicazionismo e occuparsi di politica significa non delegare nulla, non fare sconti a nessuno, affrontare fino i fondi i nodi del nostro tempo. Significa chiedersi perché la nostra generazione è sacrificata, significa allargare lo sguardo ai meccanismi dell’austerity europea e della globalizzazione neoliberista, significa identificare i responsabili e organizzarsi per invertire la rotta. Partendo dalla nostra condizione sociale e generazionale, dobbiamo essere in grado di riconquistarci uno spazio di mobilitazione, come stanno facendo i nostri compagni di Juventud Sin Futuro in Spagna, senza presunzioni di autosufficienza ma mettendo invece il nostro percorso, le nostre idee, le nostre energie al servizio di una mobilitazione generale, ampia, partecipata, non ideologica, in grado di riempire le piazze e il dibattito politico con l’energia viva delle nostre esperienze quotidiane.
Ricostruire la democrazia di questo paese, mai stata così in crisi, è un compito che semplicemente non può essere realizzato senza di noi, senza quella fetta demografica che, il 24 e 25 febbraio, ha messo per la prima volta in minoranza i partiti tradizionali e rischia di restare imprigionata nell’illusione del ribellismo ultraparlamentarista grillino. Solo un risveglio di partecipazione, una presa di parola pubblica e generalizzata, un massiccio processo di socializzazione e ripoliticizzazione può far saltare lo stallo e riaprire i giochi. Solo noi siamo in grado di cambiare questo paese, se e quando inizieremo a prenderci sul serio e a organizzarci di conseguenza, invadendo e aprendo contraddizioni in tutti gli spazi a nostra disposizione, dalle piazze ai partiti, dalle università ai sindacati, leggendo nelle nostre condizioni di vita quotidiane tutta la cieca ingiustizia del sistema economico in cui viviamo, e mettendoci al lavoro per costruire un futuro radicalmente diverso, per noi e per tutti.
[1][1] Qui si innesta anche un ragionamento-analisi sulle caratteristiche sociali degli attivisti M5S e di parte del suo elettorato: quella creative class ultraspecializzata e ultraprecaria diventata adulta negli ultimi vent’anni del grande successo del marketing, delle tecniche della qualità e del web.


Marcello Lenzi

I partiti otto/novecenteschi (anche nelle forme rivedute e corrette dell’ultimo ventennio del secolo scorso) non sono più quegli strumenti intermedi fra il popolo, a cui, per Costituzione, appartiene la sovranità, e le istituzioni nelle quali si deve raggiungere la mediazione opportuna e ragionevole fra interessi contrastanti, per tramutarli in decisioni legislative valide a risolvere equamente i problemi della collettività. Quel che è successo (e di cui lo tsunami Grillo è il corpo fruttifero di un micelio che corre da tempo nel sottosuolo del senso comune) è iniziato proprio quando (nella seconda metà degli anni 80) i partiti italiani hanno cominciato a intuire (dopo le critiche partite dalle esperienze degli anni 60) che dovevano avviare un percorso di autoriforma in quanto già allora inadeguati a interpretare i mutamenti economici, sociali e culturali che erano in corso nella società: alleggerirsi fu la risposta che si affermò sulle altre. Sbagliata perché la scelta fu di alleggerirsi non dell’oligarchia che occupava le strutture dirigenti dei partiti popolari e di massa e non solo, ma delle ramificazioni che mettevano orecchi e bocche a disposizione per recepire i bisogni, ascoltare le proposte e far conoscere e valutare le possibili soluzioni. Erano le strutture territoriali e sui luoghi di lavoro: le sezioni, le cellule, i circoli. E ancora: il mito del partito leggero, fu la risposta anche alla crisi delle ideologie cosiddette tradizionali, che proponevano un riconoscibile modello di società. Il loro cosiddetto superamento fu sentito come una liberazione e spalancò le porte all’ideologia del far politica non per costruire una società diversa ma per gli interessi prima di una parte e poi di se stessi. Mi fa scandalo ancora oggi, quando sento certe dichiarazioni di noti esponenti, che rivendicano, in qualche contingenza, di fare una determinata scelta nell’interesse del Paese e non del proprio partito. Da quella stessa matrice si è costruita anche l’ideologia della personalizzazione della politica, del far conto non sui programmi, sui contenuti e sulle modalità della loro costruzione, ma sulla persona che in quel momento appariva carismatica e perciò caricata di tutti i pregi o di tutti i difetti, secondo lo schieramento a cui si apparteneva. Lì si annidano i primi germi della sfiducia. Una sfiducia che ormai è adulta, che non è facile né rapida da rintuzzare perché incancrenita.
Che fare allora?
Non abbiamo risposte collaudate a disposizione. Dobbiamo navigare in mari aperti. Sono mari (o territori) in cui ci avventuriamo per la prima volta e per i quali non disponiamo di mappe precise e confermate. Sono mappe anche piene di lacune, ma che alcuni profili di costa comunque li hanno e offrono anche un orientamento che è definito dal criterio fondamentale, che è presente anche nel nostro Manifesto fondativo e cioè quello di lavorare per diffondere il potere. Tutti gli strumenti utili a questo scopo vanno usati. La democrazia partecipativa, la rotazione degli incarichi, la loro temporaneità, la proporzionalità di genere, la intergenerazionalità, la remunerazione come per un servizio e non come profitto derivante da privilegi di posizione sono alcuni di questi. Tuttavia occorrerà tempo per ricostruire una fiducia che si è liquefatta e la cui assenza è sintomo di una critica profonda e ormai consolidata. Questa consapevolezza critica è una risorsa ma da sé non basta. Ad essa raramente corrisponde la chiarezza diffusa di quali sono le soluzioni alternative alla crisi di rappresentanza dei partiti. Manca in larghi settori la capacità di assunzione di responsabilità diffusa e consapevole. Il sentimento della delega è tuttora fortissimo e lo vediamo esprimersi nei populismi di destra e di sinistra. Ci si affida ancora alla personalizzazione prima che ai contenuti e alle forme. L’impegno politico è ancora pensato come sporco, inutile, roba per carrieristi, meglio delegare e starne lontani magari anche astenendosi perfino alle elezioni. Esistono enclavi di impegno, spesso libertarie, che danno spazio alla partecipazione dal basso, che si manifestano nei movimenti a volte anche estesi e capaci di vittorie clamorose (i referendum del 2011 ad esempio) ma troppo spesso hanno un andamento carsico, legate come sono a fattori contingenti o sentiti come tali. Che ne è di quei 27 milioni di Italiani che hanno vinto? Quando mantengono un qualche livello di organizzazione, quando riescono a dare una qualche continuità al loro impegno quasi sempre sono autoreferenziali e diffidenti nei confronti di chi avanza l’esigenza di tener conto del carattere complesso che ha la realtà, la quale richiede percorsi e pensieri complessi per risolverne le criticità. Ma spesso sono diffidenti anche verso altri movimenti che si aggregano nello stesso territorio. Non si riesce a superare il proprio particolare. Dall’altra parte sta il rapporto con i partiti e soprattutto con i loro militanti che ancora hanno energie e disinteresse che mettono in campo. Un patrimonio che con l’esito di queste elezioni politiche rischia di essere disperso, di rifluire e che è comunque difficile da coinvolgere per incrostazioni identitarie che si sono viste anche nell’esperienza di CsP/RC. Queste sono le condizioni di cui dobbiamo tener conto: “Hic Rhodus hic salta”1. Si tratta di un lavoro di lunga durata, fondato sulla formazione sempre più diffusa al nostro interno, ma sempre aperta agli apporti esterni e alla partecipazione. Formazione che si connoti per un mix di studio, analisi, proposte ma anche di prassi ogni volta che nei territori si presentino situazioni di conflitto o criticità. Dobbiamo chiedere ai vari soggetti individuali e collettivi di condividere un percorso alla ricerca di forme nuove dell’agire politico attraverso la integrazione delle esperienze settoriali, in modo da coniugare sensibilità sociale, competenza, riconoscimento della complessità presente nella società, partecipazione democratica diffusa per raggiungere la capacità di offrire proposte complesse ai problemi complessi della società. Se questo percorso sfocerà in forme organizzative in grado di essere riconosciute come proposta credibile dai cittadini allora si potrà partecipare alle competizioni elettorali future innanzi tutto nelle realtà locali, altrimenti meglio starne fuori, valutando di situazione in situazione l’atteggiamento da tenere.

1 In “Il 18 Brumaio di Napoleone Bonaparte” di C. Marx che lo riprende da Esopo





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