Bilanci di previsione 2013 degli Enti Locali e prospettive della finanza pubblica
di Simona Repole
Siamo davvero ad un giro di boa della finanza pubblica in generale e di quella locale.
La regola ordinamentale dell’approvazione del bilancio entro il 31/12 di ogni anno è ormai di fatto abrogata, visto che da anni viene puntualmente prevista per legge la proroga di questo termine; quest’anno l’approvazione è rimandata al mese di giugno.
Se nelle prossime settimane il governo non deciderà in merito ad IMU, TARES (la nuova tassa sui rifiuti) e tagli dei trasferimenti per l’anno in corso (la spending review prevede un taglio di 2.250 milioni di euro già dichiarato insostenibile dai comuni!), c’è il rischio che il termine di approvazione dei bilanci slitti ancora di qualche mese.
Questo vuol dire costringere gli Enti ad una gestione provvisoria delle proprie risorse finanziarie che diventa modalità quasi “ordinaria” per la maggior parte dell’anno e, quindi, politiche dei territori ulteriormente ridotte in termini di servizi già in essere e nuovi servizi da attivare, poiché la gestione provvisoria del bilancio consente di intervenire, di mese in mese, solo per operazioni obbligatorie per legge e per quelle strettamente necessarie ad evitare danni all’Ente.
Dopo anni di continui tagli dei trasferimenti ed inasprimento del patto di stabilità interno, viene, pertanto, consolidato lo strappo alle norme sulla corretta programmazione dell’attività degli enti locali, nonchè al principio costituzionale di sussidiarietà, vale a dire alla sovranità ed autonomia d’azione del livello di governo più vicino ai cittadini.
Finora il meccanismo del patto di stabilità ha inciso fortemente sugli investimenti. Dal 2013 si prevede anche una contrazione della spesa corrente degli Enti, cioè della spesa per i servizi ai cittadini.
Nel 2013, tra l’altro, il patto di stabilità troverà applicazione anche ai comuni con popolazione tra 1.000–5.000 abitanti, fino ad oggi esclusi da questo meccanismo. L’applicazione non sarà graduale e, quindi, avrà un impatto finanziario fortissimo anche sulle piccole realtà locali.
E non basta, dal 2014 saranno assoggettati anche le unioni di comuni formate dagli enti con popolazione inferiore a 1.000 abitanti.
E ancora, nel 2014 entrerà in vigore il nuovo sistema di contabilità basato sull’armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio di regioni ed enti locali, che mirerebbe a rendere i bilanci degli enti territoriali, compresi quelli del settore sanitario, omogenei e confrontabili tra loro.
Trattasi di una vera rivoluzione di contenuto del bilancio, un’operazione molto complessa, che potrebbe ulteriormente imbrigliare e rallentare l’attività degli Enti, nonchè limitarne ancora l’autonomia finanziaria.
Con il decreto pagamenti dell’aprile scorso, il patto di stabilità è stato allentato per l’anno 2013, per consentire il pagamento dei debiti pregressi per investimenti scaduti al 31/12/2012.
Il decreto è solo uno sblocco “una tantum” e straordinario di 40 miliardi di euro che, quindi, non risolve affatto i problemi e le criticità della finanza pubblica.
Tra l’altro, se venisse confermato che dal beneficio sono esclusi i pagamenti effettuati fino ad aprile 2013, si potrebbe creare il paradosso che gli enti che hanno pagato i propri debiti pregressi nei primi mesi del 2013 saranno esclusi dal decreto, incontrando più difficoltà con il patto di stabilità 2013. In sostanza, si rischia di penalizzare i comuni più virtuosi ed agevolare chi ha pagato con meno regolarità le proprie imprese creditrici.
Siamo a maggio e le amministrazioni non hanno ancora risposte a questioni che ad oggi dovevano essere già definite per consentire l’approvazione dei propri bilanci per l’anno 2013. La cosa preoccupante è che non è nemmeno iniziato alcun confronto tecnico sul tema.
Occorre quanto prima dare stabilità e certezza alla finanza locale e nazionale e, soprattutto, avviare immediatamente un percorso che riveda strutturalmente il sistema del Patto di Stabilità, al fine di rimuovere quegli ostacoli che oggi ci condannano ad uno stallo e ad una prospettiva di peggioramento che non ci possiamo permettere. Dal quadro sopra delineato emerge chiaramente che l’approccio alla finanza locale e nazionale degli ultimi anni, costruito sulle politiche di austerity europee, è del tutto inadeguato e insufficiente rispetto alla necessità di dare delle risposte alle emergenze ed esigenze di medio periodo del Paese e dei territori.
Scheda informativa su: Patto di stabilità e politiche europee di austerity
Con il Trattato di Maastricht nel febbraio 1992 venne espressa la volontà degli Stati membri di raggiungere un adeguato livello di armonizzazione ed unità europea in tema, tra gli altri, di politica economica, volontà che comportava l’accettazione di forti limitazioni al potere decisionale sulle proprie finanze pubbliche con l’introduzione, a partire dal Trattato di Amsterdam del 1997, di vincoli alle politiche fiscali nazionali che hanno trovato espressione nel Patto di Stabilità e Crescita (Psc).
In estrema sintesi, i principali valori ed indici virtuosi del Patto sono:
- rapporto tra deficit e PIL inferiore al 3%;
- rapporto tra debito pubblico e PIL inferiore al 60%.
Fin dall’inizio le regole di bilancio europee sono state oggetto di forti critiche soprattutto per due motivi: insufficiente flessibilità, nel senso di non favorire politiche anticicliche nelle fasi sfavorevoli e scarsamente incentivanti nei periodi favorevoli ed effetti negativi sugli investimenti.
Il Patto di Stabilità Interno (Psi) nasce nel 1999 come strumento per supportare lo Stato nel rispetto del Psc, trasformandosi ben presto in un complesso e variabile meccanismo di controllo della spesa pubblica e di ribaltamento di buona parte dei vincoli europei su regioni ed enti locali. Un forte condizionamento da parte dello Stato sulla finanza locale e regionale, per una gestione molto centralizzata che nel tempo ha finito per minare, alle fondamenta, il concetto di autonomia finanziaria di regioni ed enti locali e lo stesso principio di sussidiarietà sancito dall’art. 118 della Costituzione.
In pratica, il meccanismo del patto di stabilità impone agli enti di conseguire, ogni anno, un obiettivo di saldo finanziario positivo - la differenza tra entrate e spese finali - non inferiore ad un certo valore individuato: un obiettivo che si concretizza in risorse che rimangono nelle casse delle regioni e dei comuni e che non possono essere spese in quanto contributo agli obiettivi di risanamento del debito pubblico nazionale.
A partire dal 2011, il calcolo del saldo finanziario è stato ancorato a criteri che hanno reso ancor più stringenti ed impegnativi gli obiettivi da raggiungere.
Le conseguenze per gli enti che non rispettano il Psi sono:
- riduzione dei trasferimenti statali;
- limiti alla spesa corrente;
- divieto di ricorrere all’indebitamento per finanziarie gli investimenti;
- divieto di procedere ad assunzioni di personale;
- riduzione delle indennità di funzione e dei gettoni presenza.
E’ stato calcolato che tra gli anni 2007-2014 il contributo finanziario complessivo apportato dai Comuni al risanamento della finanza pubblica è stato di oltre 15 miliardi di euro, di cui 40% da tagli di risorse trasferite e 60% da inasprimento del Patto di Stabilità.
E tutto questo a spese degli investimenti pubblici di regioni ed enti locali, che sono stati ridimensionati considerevolmente. Istat rileva una riduzione della spesa per investimenti tra il 2007 ed il 2011 del 23%, con effetti fortemente recessivi sull’economia locale e nazionale.
Con l’acuirsi della crisi e della difficoltà estrema di alcuni paesi, a partire dal 2010 è stato avviato, in sede europea, un processo di riforma del Psc, nel quale si sono scontrati i Paesi favorevoli ad un meccanismo rigido ed inflessibile (Germania in primis, ma anche Paesi Bassi, Svezia, Finlandia) e i Paesi più propensi ad una maggiore flessibilità, in considerazione di specifiche situazioni o fasi economiche sfavorevoli (Italia, Belgio, Francia, Spagna, Portogallo).
Questo processo ha portato all’approvazione, nel novembre 2011, di una serie di regolamenti europei, mentre nel marzo 2012 è stato definito l’accordo sul fiscal compact, che prevede una serie di “golden rule” orientate al perseguimento dell’equilibrio di bilancio, a completamento del sistema di regole che compongono la cosiddetta “governance” economica europea. I principali vincoli del fiscal compact sono:
- bilanci in equilibrio o positivi;
- correzioni automatiche da parte degli Stati in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi di bilancio concordati;
- dovere di inserimento delle regole in norme nazionali, meglio se costituzionali, pena l’applicazione di sanzioni;
- mantenimento del deficit pubblico sotto il 3% del PIL, pena l’applicazione di sanzioni semi-automatiche.
Il governo Monti ha inserito detti vincoli nella Costituzione, in largo anticipo – tra l’altro – rispetto ai tempi previsti dalle normative europee, conla Legge Costituzionale n. 1/2012.
L’obbligo di partecipazione delle regioni e degli enti locali alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica ha assunto, pertanto, valenza costituzionale: è stato introdotto il principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale e si prevede che regioni ed enti locali sono tenuti a concorrere ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea.
Tra il 2011 e il 2012 c’è stato un susseguirsi di provvedimenti modificativi ed integrativi del Psi, da cui oggi deriva un quadro normativo nazionale assai complesso, reso ancor più critico dal fatto che questo tema si lega ed incrocia con altre questioni: IMU, federalismo fiscale, spending review, direttiva pagamenti, ridefinizione dei controlli interni, nuovo ordinamento contabile che scaturirà dal percorso di armonizzazione dei bilanci in atto.
Se si considera anche il fatto che la recente legge costituzionale ha previsto che il ricorso all’indebitamento è consentito solo al verificarsi di eventi eccezionali, ne consegue che l’attuale quadro normativo della finanza pubblica nazionale, riformato alla luce del rigore e dell’austerity europea, non lascia più spazio a politiche economiche senza copertura: ogni nuova spesa o taglio di tasse deve essere compensato da un’equivalente riduzione di spesa o aumento delle imposte.
Si evidenzia, infine, il recentissimo “Two-Pack”, l’ultimo regolamento rafforzativo della “governance” economica dei 17 Paesi europei aderenti alla moneta unica.
Se verrà confermato, la Commissione europea, a partire dal 2014, avrà il potere di veto sui bilanci degli Stati membri, laddove fino ad oggi poteva esprimere semplici “raccomandazioni”.
Il regolamento approvato il marzo scorso prevede che ogni anno, i governi dell’eurozona sottopongano alla supervisione di Bruxelles i propri bilanci per l’anno seguente. Alla luce dei conti presentati, la Commissione potrà decidere, volta per volta, di cassare interi punti delle manovre finanziarie chiedendo mutamenti, anche radicali, in nome della necessaria “armonizzazione” della politica economica dell’intera zona euro.
Quest’ultimo passaggio delle politiche europee del rigore e dell’austerity rappresenta probabilmente il prezzo politico più alto pagato dagli Stati membri in termini di perdita della propria sovranità nazionale.
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